Lucia Coppola - attività politica e istituzionale | ||||||||
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Trento, 10 settembre 2013 sabato 7 settembre 2013 L'amore per la vita e la tutela del bene comune più grande, ossia la pace, sono le ragioni per dire no a una guerra in Siria. Un intervento che già nelle premesse sembra configurare una crisi internazionale senza precedenti nella storia degli ultimi sessant'anni. La guerra civile siriana è iniziata il 15 marzo del 2011 con dimostrazioni pubbliche e rivolte che si collocavano dentro le speranze delle tante «primavere arabe». Da allora sono state uccise 110 mila persone, tra cui migliaia di donne e bimbi innocenti. Il presidente Bahar al Assad, ben lungi dall'attuare le riforme necessarie, ha preferito sopprimere nel sangue ogni anelito di libertà, giustizia, democrazia. Abusi, violenze, stupri, torture, uccisioni e sequestri hanno caratterizzato il conflitto tra le forze governative e i ribelli, crimini condannati dalla Lega Araba, dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea. Con Russia e Cina che hanno di fatto impedito sanzioni e risoluzioni dell'Onu. A poco sono serviti anche gli osservatori, mentre si sono acutizzate le contrapposizioni tra correnti religiose. Le forze armate ribelli sono principalmente sciite e ricevono aiuti da Paesi come la Turchia, da curdi e palestinesi vicini ad Hamas; le forze lealiste sono appoggiate dai Mujaheddin. L'inerzia e l'indecisione dell'Occidente, la sua divisione, hanno determinato un incancrenirsi della guerra civile, sfociata nella nota vicenda legata all'uso di armi chimiche. Questo fatto gravissimo non può però farci dimenticare la potenza mortifera di tutte le armi, delle bombe cluster, delle mine anti-uomo, dei bombardamenti e degli inevitabili «sbagli» nel colpire obiettivi civili. Le ragioni della pace, pur a fronte di una situazione tanto compromessa, sono infinitamente più sagge, razionali e necessarie. Perché, come dice papa Francesco, guerra chiama guerra e violenza chiama violenza: è un dato di fatto. La nostra coscienza di cittadini del mondo si ribella all'ennesima prova di forza che colpirà altre vite e persone uguali a noi. Distruggerà, ancor più di quanto non stia già avvenendo, pazienza e sapienza, possibilità di dialogo e di civile convivenza. In tanti e tante siamo per la pace: perché siamo madri, padri e fratelli e conosciamo il valore di ogni vita umana. Perché le guerre, sempre animate da «buoni» propositi, nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, le operazioni a Panama, in Somalia e in Libano ci hanno insegnato che i regimi restano, che i dittatori proliferano e sono spesso foraggiati da un Occidente ipocrita, ma intanto spariscono le persone, le città, i monumenti e i ponti, l'arte e la storia. Restano le mine, la fame, le malattie, le mutilazioni a tormentare i superstiti. Di fronte alla vita e alla morte restiamo nudi, non contano più le appartenenze, le ideologie, i giochi di potere, le strategie, la tattica. Conta stare dalla parte della pace. Abbiamo il dovere nei confronti delle nuove generazioni di schierarci per la vita, sempre e comunque, di portare dove serve la nostra testimonianza, di non essere conniventi e di dichiararlo. Un giorno Federica, una mia alunna, mi disse: «Maestra, ho visto su un giornale la bandiera della guerra: è bruttissima, tutta nera e con un teschio. Io ho rotto il giornale perché avevo paura». Non so quale bandiera abbia visto Federica, forse era solo quella dei pirati, ma per lei come per altri bambini la guerra è spesso un incubo con il quale fare i conti, è una possibilità. Un dolore sordo che si insinua sotto forma di insicurezza nelle loro vite, minando la fiducia nel genere umano. Io lo trovo terribile. Nel 1991 decine di migliaia di civili morirono sotto i bombardamenti che gli Usa e i loro alleati scatenarono sull'Iraq; per i militari la stima oscilla tra i cinquantamila e i centoventimila morti. La guerra successiva portò un numero molto maggiore di morti civili e militari. La prudenza, quando si parla di interventi militari, non è mai fuori luogo. I distinguo partono dalla convinzione che tutto ciò non ci riguardi, ma la verità è che viviamo in un mondo sin troppo interdipendente. Chissà come la penserebbero gli interventisti, che sono sempre meno ma contano molto, se sotto i bombardamenti mirati, chirurgici, ci fossero le nostre famiglie, «la nostra gente», parenti, amici, conoscenti. Quanti saranno i nuovi profughi da assistere, le persone bisognose di cure, la cui condizione nutrizionale e sanitaria, già precaria, precipiterebbe? La Siria è in preda a una guerra civile sanguinosa e crudele, un Paese in ginocchio, indebolito, con poca capacità di resistere a una nuova emergenza. A una guerra portata dall'esterno. Abbiamo bisogno di diplomazia, di leader internazionali, ancorché premi Nobel, dotati di intelligenza politica, della lungimiranza di una leadership che dovrebbe essere saggia, umana, e che invece si sta avviando, nei balletti dei parlamenti (fuori dalle regole delle Nazioni Unite), verso un futuro davvero incerto e pericoloso anche per gli equilibri mondiali. Riprendiamo a far sventolare le bandiere della pace, perché ogni vita umana va difesa. Non ci sono vite che valgono di più. Forse non è ancora troppo tardi per cominciare a pensare di risolvere la crisi siriana con gli strumenti della pace, anche se molto si sarebbe potuto già fare. Uniamoci alle preghiere, al digiuno, alle petizioni, alle marce in nome e per conto del popolo siriano e anche delle nostre coscienze. Lucia Coppola
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LUCIA COPPOLA |
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